Il “Gran” Pontano pensatore dell’ordine politico
[Gennaio 2005]
Quando nel 1458 muore Alfonso il Magnanimo, primo re aragonese di Napoli, il successore, il figlio Ferrante, deve combattere una durissima guerra di successione, che si concluderà con la sua vittoria soltanto nel 1464. Ha contro il papa e gli Angioini, pretendenti al trono di Napoli, ma il problema politicamente e storicamente più grave è nel ceto dei baroni, i nobili del Regno. Uomini valorosi in guerra e abili politicamente, ma guidati più dagli interessi personali e familiari che dall’idea del bene comune del Regno, gelosi delle loro autonomie, rissosi, pronti al conflitto, capaci di cambiare campo più volte nella loro vita. Non sono tutti così (è ovvio) ma molti fra di loro lo sono, cosicché questa è da sempre la debolezza prima e principale del Regno.
Testimone attento di questa guerra è un giovane proveniente dall’Umbria, che a Napoli sta percorrendo una luminosa carriera, fino a diventare primo ministro di Ferrante nel 1485. È Giovanni Pontano, nato nel 1429 a Cerreto di Spoleto in Valnerina, che giovanissimo ha avuto l’ardire di presentarsi ad Alfonso il Magnanimo, che guerreggiava in Toscana, chiedendo di essere preso al suo servizio. Alfonso, ottimo conoscitore di uomini, aveva capito il valore di questo giovane provinciale e lo aveva portato a Napoli. Uomo versatile e poliedrico, alla carriera politica e diplomatica Pontano affianca un grande talento poetico (per molti è il più grande poeta latino dopo l’antichità) e una intensa attività di scrittore di dialoghi satirici e di opere di storia, etica e politica. Verso la fine della sua vita la sua fama è tale che è universalmente chiamato “il gran Pontano”. Morirà a Napoli nel 1503 ((Per quanto riguarda il pensiero politico di Giovanni Pontano mi permetto di rinviare a Claudio Finzi, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Il Cerchio, Rimini 2004.
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Pontano inizia la sua riflessione politica scrivendo il De principe, trattatello epistolare indirizzato ad Alfonso, duca di Calabria ed erede al trono, del quale era precettore ((Giovanni Pontano, Ad Alfonsum Calabriae Ducem De principe liber, a cura di Guido M. Cappelli, testo latino con versione italiana a fronte, Roma 2003.
)) . Vi descrive con intelligenza e acutezza il sovrano ideale, ricco di virtù non soltanto morali ma politiche, accorto, attento al benessere dei sudditi, alla giustizia, ma anche agli interessi degli uomini e del Regno. Ora, negli anni difficili della guerra di successione e in quelli immediatamente posteriori fino al 1470, scrive il De obedientia, trattato dedicato all’analisi e allo studio della virtù dell’obbedienza, che Pontano considera importantissima a tutti i livelli, tanto nel privato quanto nel pubblico, dalla famiglia fino al Regno ((Il De obedientia, completato nel 1470, fu stampato a Napoli dal tipografo Mattia Moravo nel 1490. Non ne abbiamo edizioni moderne ; occorre quindi ricorrere alle edizioni del Quattrocento o del Cinquecento. Qui faccio riferimento a Giovanni Pontano, De obedientia, in Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis in aedibus Aldi et Andreae soceri, tre volumi, 1518–1519, vol.I, cc.1–48 (De obedientia = DO).
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Attenzione ! Per Giovanni Pontano qui il problema non è soltanto morale ed etico ; anzi questo è l’aspetto che in questo contesto meno lo interessa. Ciò che gli importa è la funzione sociale e politica dell’obbedienza ; il suo problema è individuare un fondamento alla società, a quella società meridionale lacerata dagli interessi e dalle intemperanze dei baroni, che rendono impossibile la convivenza ordinata degli uomini. La forza da sola non basta ; l’astuzia neppure ; gli interessi non gli sembrano sufficienti : occorre qualcosa di più, un legame fra gli uomini, che abbia in sé sia la forza sia la virtù. Questo legame per Giovanni Pontano è appunto l’obbedienza. ma quale obbedienza ? Tutto il suo trattato è un lungo e attento ragionare su questo punto.
Tutta la convivenza umana, scrive Giovanni Pontano, è radicata nell’obbedienza. La prima obbedienza è interna all’animo dell’uomo e consiste nell’obbedienza delle passioni alla ragione, senza la quale i moti dell’animo vagherebbero incontrollati portando l’uomo stesso alla rovina. Ma l’obbedienza non è soltanto un mero riconoscimento intellettuale o morale delle norme della ragione. Se così fosse, l’obbedienza potrebbe anche restare inoperante sul piano concreto, quasi compiacimento interno dell’uomo contemplante le norme. Invece l’obbedienza è il concreto raccordo tra la ragione e la volontà dell’uomo. Non basta conoscere il bene, occorre anche volerlo fare, volerlo rendere concreto nell’agire quotidiano, quando l’applicazione del bene può esserci faticosa, fastidiosa, penosa. Qui interviene l’obbedienza, sorreggendo la nostra volontà, quando questa pretende che noi agiamo rettamente ((DO, cc.2r e 5v.
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Da questo suo primo luogo poi l’obbedienza percorre tutta la società in tutte le sue multiformi e stratificate articolazioni : dalla famiglia alla città al Regno. Gli uomini tutti sono legati in una serie di rapporti comando obbedienza, fuori dei quali nessuno può vivere. Il consorzio umano è retto dall’obbedienza, come ci mostrano e dimostrano la natura e la storia. Di obbedienza si scriveva e parlava allora, nel Quattrocento, anche nelle altre città italiane e in contesti molteplici, ma il discorso pontaniano ha qualcosa di particolare. A Firenze, per esempio, si riaffermava sempre e con forza la necessità di obbedire alle leggi ; il discorso di Pontano invece guarda ai rapporti diretti tra gli uomini : ciò che conta è l’obbedienza dell’uomo all’uomo, molto più di quella dell’uomo alla legge. C’è negli scritti pontaniani una concretezza dei rapporto sociali, che altrove invece quasi si vanifica nel rapporto tra legge e uomo. I baroni non debbono obbedire a norme astratte, debbono invece obbedire al Re e a chi lo rappresenta.
Negli scritti di Pontano l’obbedienza non è mai mera passività, mero obbligo di eseguire i comandi del superiore in ossequio alla necessità terribile di far funzionare la società. L’obbedienza è raccordo tra ragione e volontà, lo abbiamo appena detto ; ma non basta. All’obbedienza infatti corrisponde esattamente e simmetricamente la giustizia : se l’inferiore deve obbedienza al superiore, simmetricamente il superiore deve giustizia all’inferiore. Tutta la società è retta da questi rapporti duplici e biunivoci : obbedienza dal basso verso l’alto, giustizia dall’alto verso il basso. Cosicché possiamo ben dire che l’inferiore ha il dovere di obbedienza al superiore, ma allo stesso tempo ha il diritto ad essere guidato e governato con giustizia ; e d’altro canto il superiore ha sì diritto all’obbedienza dell’inferiore, ma allo stesso tempo ha il dovere di governare e guidare con giustizia. Ad ogni dovere corrisponde un diritto e ad ogni diritto corrisponde un dovere ; in ogni livello della società ((DO, c.13r.
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Così nell’opera di Giovanni Pontano l’obbedienza perde ogni connotazione di mera passività per farsi vero legante sociale e politico insieme con la giustizia. L’obbedienza qui è partecipazione alla società e alla politica, anche perché quasi nessuno sarà tenuto esclusivamente all’obbedienza. Soltanto nel livello più basso della società esistono uomini, che debbono solo obbedire, come all’altro estremo il Re ha soltanto obblighi di giustizia non compensati da obblighi di obbedienza. Benché sia pur necessario ricordare che anche il Re deve obbedire a Dio ed anche il più umile dei servi deve fare in modo che la sua ragione comandi giustamente alle sue passioni.
Siamo dunque ben lontani da quelle caricature dell’obbedienza, intesa non più come virtù bensì come difetto e imperfezione, che circolano nel nostro mondo di oggi, nel quale si esalta la disobbedienza. Le attuali descrizioni dell’obbedienza la descrivono appunto come mera passività, come rinuncia ad avere una propria anima, un proprio volere ; cosicché ogni disobbedienza è intesa e valutata come merito contro l’oppressione, che nell’obbedienza si incarnerebbe. Non a caso una frangia piuttosto consistente del movimento anarcoide e antiglobalista italiano definisce se stessa chiamandosi dei “disobbedienti”.
In tal modo peraltro anche chi oggi esalta la disobbedienza ne fa un qualcosa di misero e plebeo. Altre volte nella storia degli ultimi secoli la disobbedienza è stata esaltata come massima espressione di un uomo, che intende e vuole animosamente spezzare le regole, vuole diventare regola e legge a se stesso, assolutamente e completamente libero. È il mito dell’uomo, che tutto sfida e tutti affronta, misura unica di se stesso ; il mito dell’uomo completamente autonomo. E d’altronde persino nel tardo medioevo alcune figure di dannati dell’inferno nella Divina commedia del nostro Dante Alighieri hanno una loro grandezza, infernale ma grandezza, quando con la loro pertinace disobbedienza sembrano quasi sfidare o persino apertamente e orgogliosamente sfidano lo stesso Iddio, che li ha condannati. Ma di questa grandezza nulla resta nella disobbedienza contemporanea, espressione misera e minuta di un desiderio di fare ciò che piace, di vivere come si vuole non nella grandezza di una sfida impossibile, bensì nella pochezza della quotidianità. Insomma : dalla grande sfida al proprio piccolo piacere quotidiano, al proprio piccolo comodo, al pretendere di poter compiere senza rimproveri le proprie minuscole e volgari nefandezze personali.